Ho paura. Una paura quieta e non manifesta, ma ce l’ho. Ti
temo, piccolo sottile foglio bianco. Mi guardi, mi scruti da ogni angolatura,
lo so lo sento, come gli occhi delle foto dei morti, al cimitero.
Da piccolo mi facevo tutto figo e mi mettevo il gel, per
andare al cimitero. Ero convinto che tutti mi guardassero, che tutti fossero
interessati alla mia figura di piccolo dandy e alle mie scarpe da tennis nuove,
quindi camminavo circospetto, ma un po’ egocentrico, e mi voltavo pure di
scatto, per sorprendere quella morticina lì della mia età guardarmi e
commentare la perfetta attaccattura dei miei pantaloni verdone alle nike nuove
di pacca. Magari ne avrebbe parlato con le altre morticine del cimitero, quando
il pomeriggio sarebbe calato lasciando posto alla sera. Macabro, certo, ma
anche naturale e fresco come i pensieri di un bambino, che sa che la morte fa
parte dell’esistenza tanto quanto la vita, perchè è da poco passato dal nulla
alla realtà, e non ha avuto il tempo di dimenticarselo e averne paura.
Il foglio mi spaventa perchè è terribile come lo specchio di
una profumeria, dove profondità e giochi di luce sono creati ad hoc per
evidenziare le imperfezioni dei clienti, farli sentire umani, decadenti,
bisognosi di acido ialuronico e vitamine della frutta, che invece che dalla
frutta bisogna assorbirle con le cremine.
Quel foglio lì lo sa che prima o poi dovrò affrontarlo. Mi
aspetta, calmo e sicuro di sé come una gatta viziata sul divano più bello. Io,
dal canto mio, non posso far altro che procrastinare, evito di ascoltare il
minimo richiamo al dovere, scivolo via lontano, sorvolo la porzione di
scrivania da dove mi osserva come fosse contaminata.
NON VOGLIO GUARDARMI DENTRO. NON VOGLIO OSSERVARMI. NON
VOGLIO SAPERE CHI SONO DIVENTATO.
Ma lui ride come un matto. Bastardo. Cazzo ridi. Le risate
fuori luogo mettono i brividi. Chi ride quando non ce n’è motivo è uno
spostato. Saresti capace di tutto. Ma rimani lì.
Spengo la luce. Lui è ancora lì che mi aspetta. Il tempo mi
scorre addosso come carta vetrata. Afferro le ginocchia e stringo i denti
perché devo resistere
.
La cosa più improbabile a questo punto della vicenda, lo so
bene, è la comparsa di un’erezione. Una potente, inaspettata, pomposa e
inopportuna erezione. Sento i brividi di piacere attraversarmi le palle e
salirmi fino al tronco trasformandosi in formicolii sparsi. Spalanco gli occhi,
rattrappisco la mente e i suoi stupidi origami. “Fottiti ego, fottiti” dico
mentre infilo la mano nei pantaloni e me lo afferro. Lo stringo caldo e duro e
provo piacere nel palpare la mia mascolinità.
Sprofondo nel mio mondo, a tu per tu con le mie fantasie più
animalesche, sconfiggo qualsiasi pensiero razionale e mi cospargo di attimi necessari,
attimi di fervide perversioni finché non vengo,
spossato, dopo aver cavalcato mille fantasie bagnate e torbide. Vengo e
vengo e sembra non finire mai tanta era la frustrazione accumulata dentro di
me, che ricaccio fuori in forma di perle bianche.
Rimango a contemplare le reazioni chimiche del mio cervello,
occhi spalancati rivolti verso l’alto nel buio della stanza, il cuore che batte
forte, l’eccitazione pompata a più non posso nelle vene. Sono stato con tutti e
con me stesso, ho attraversato momenti passati e futuri e schiacciato tutto con la fantasia.
Anteposto fisicità a punti interrogativi. Ho gli occhi spalancati che scavano
nel buio.
E da vero adulto, oramai, mi alzo in piedi sulle gambe
ancora tremolanti. Avanzo lentamente verso il foglio bianco. Lo afferro deciso
e guardandolo dritto negli occhi lo uso per pulire i liquidi residui della mia
eccitazione. E Schopenhauer non me ne voglia, se lui non ci aveva mai pensato.
No comments:
Post a Comment